Questo articolo sulla Regione Autonoma dello Xinjiang è stato scritto da un autore esterno.
Xinjiang. Un nome che per un motivo o per l’altro è familiare quasi a tutti quelli che hanno vissuto o che comunque hanno a che fare con la Cina.
Lo Xinjiang, per intero Regione Autonoma Uyghur dello Xinjiang, è la provincia più estesa della Cina. Si trova nell’estremo nord-ovest del Paese ed è da sempre stato il principale accesso all’Asia centrale, tanto da essere uno dei principali territori attraversati dalla via della Seta, motivo per cui le dinastie imperiali cinesi hanno sempre cercato, con successo o meno, di esercitarvi una certa forma di controllo. Queste ambizioni espansionistiche e territoriali sono perfettamente assorbite nel nome stesso della regione, letteralmente “Nuova Frontiera”.
La maggioranza della popolazione è di etnia uigura, un’etnia turcofona di religione islamica e ben nota nelle cronache cinesi soprattutto per alcuni episodi di terrorismo verificatisi in Cina e compiuti da estremisti islamici-separatisti locali. Già, perché gli uiguri, per via delle enormi differenze somatiche, culturali e religiose che hanno con l’etnia Han e la maggior parte delle altre minoranze etniche cinesi si oppongono da sempre al “dominio” del governo di Pechino. Ovviamente ciò non significa che tutti gli uiguri odino fortemente tutti gli han, o che tutti gli uiguri siano terroristi: proprio come avviene in Italia o in altri paesi occidentali con le altre popolazioni musulmane, un numero estremamente limitato di individui fa passare per “cattiva” la totalità della popolazione. In realtà, gli uyghur sono estremamente amichevoli, spontanei e amano i piaceri della vita, con alcune usanze molto simili a quelle italiane.
Tuttavia, non sono certo qui per parlare di storia, né tantomeno per esprimere giudizi su chi sia “giusto” o “sbagliato”. Alcuni mesi fa (Aprile-Maggio 2015) ho avuto l’opportunità di recarmi nello Xinjiang, dove sono rimasto per un mese: non essendo un luogo turistico così frequentato dagli expat che vivono o si recano in Cina, ed essendoci soprattutto tantissimi luoghi comuni e percezioni completamente errate a riguardo, ho deciso di raccontare su questo fantastico blog alcune delle esperienze o sensazioni che ho avuto durante la mia permanenza nella regione e che hanno fatto sì che questo viaggio rappresenti una tra le più belle esperienze in assoluto che abbia mai avuto nella mia vita.
Penso che sia opportuno partire dalla prima sensazione che ho avuto appena arrivato nello Xinjiang, o meglio, mentre ero ancora in viaggio verso quella meta: quella della lontananza dal resto della Cina. Essendomi recato da Pechino in treno e avendo letteralmente attraversato tutta la Cina, da Beijing fino alla prefettura Ili (conosciuta anche come Gulja) al confine con il Kazakhstan, per un totale di 3.800 km in 45 ore, vi posso assicurare che questa sensazione è stata più forte che mai.
Innanzitutto perché il viaggio sembra non terminare mai (in effetti 45 ore non sono proprio pochissime), ma soprattutto per i tantissimi tipi di paesaggio attraversati: si passa dalle colline e dai campi agricoli nell’area di Pechino, dello Hebei e dello Shanxi, a un paesaggio, dopo il primo attraversamento del fiume giallo (al confine tra Shanxi e Shaanxi), che alterna terreni fertili a colline aride e abitazioni fatte a caverne yaodong (窑洞), per poi approdare in un terreno decisamente arido e roccioso. Per descriverla in modo più visivo, si passa dal verde, al verde-giallo, fino al giallo-marrone.
Osservare il paesaggio e cercare di trarre conclusioni in base alle caratteristiche del terreno è praticamente uno dei pochissimi modi possibili per orientarsi e individuare la posizione (il cellulare è stato irraggiungibile praticamente per tutta la durata del viaggio). Gli unici riferimenti che avevo erano le mie conoscenze geografiche e soprattutto i due attraversamenti del fiume giallo (il secondo attraversamento avviene circa al confine tra Ningxia e Gansu). Tuttavia, una volta tramontato il sole era diventato ormai impossibile orientarsi, così, senza sapere dove mi trovassi e dopo probabilmente la ventesima sigaretta e seconda bottiglia di baijiu offerta da altri passeggeri, mi misi a riposare.
Mi svegliai circa verso le 5:00 del mattino e guardai subito fuori dal finestrino.
Non dimenticherò mai quella scena. Era l’alba, alla mia sinistra delle montagne altissime e ricoperte di neve, luccicanti sullo sfondo di un cielo che timidamente si apprestava a schiarirsi; alla mia destra il nulla, se non massi, massi, e ancora massi. Conoscendo geograficamente la Cina capii di essere finalmente arrivato nel famigerato corridoio del Gansu, al termine del quale si trova lo Xinjiang.
“Ci siamo quasi”, pensai. In realtà, ci vollero circa altre 6 ore di nulla per rendermi veramente conto di quanto fosse lungo il corridoio del Gansu (ci vogliono circa 15 ore in totale per attraversarlo tutto) e per arrivare, finalmente, nello Xinjiang.
Già verso la fine del Gansu (ultima fermata Yumen 玉门) il paesaggio era di nuovo cambiato: eravamo passati dalle montagne sulla sinistra e dai terreni completamente aridi ricoperti da massi e rocce sulla destra (grigio-marrone scuro), di rado interrotti da terreni salini e impianti industriali, a un paesaggio completamente desertico dominato da sabbia (marrone chiaro). Dopo circa altre 3 ore di nulla, arrivai nella prima città dello Xinjiang: Hami. Super eccitato scesi dal treno durante la sosta per fumare una sigaretta e per respirare quell’aria che da tanto tempo sognavo di respirare, anche se in realtà non era poi così diversa dagli altri posti, se non decisamente più secca.
Da Hami a Urumqi, prima tappa intermedia del mio viaggio (da dove avrei preso un altro treno di 11 ore per la valle dell’Ili), ci vogliono altre 5 ore: fatta eccezione per infinite distese di pale eoliche (ho calcolato una distesa ininterrotta per 1 ora e 30 di treno), qualche pozzo petrolifero e qualche cammello, il paesaggio dominante resta sempre lo stesso: deserto e sabbia.
È stato poco prima di arrivare a Urumqi, esattamente a Turfan (o Turpan, Tulufan in cinese), città patrimonio culturale UNESCO, che ho avuto il secondo, di gran lunga più forte impatto con la realtà dello Xinjiang: soldati in assetto da guerra schierati sulla banchina della stazione, forse 200 in totale. Diciamo che facevano un certo effetto.
In quel momento non riuscivo a capire se si trovassero lì per un motivo particolare o se si trattasse di normale routine. Tuttavia, appena giunto alla mia destinazione finale, Yining, capitale della prefettura autonoma kazaka di Ili, mi sono reso conto che forse si trattava più della seconda opzione. Dopo 45 ore di treno, infatti, ho trovato forze speciali ad accogliere il treno alla stazione (arrivato alle 6 di mattina locali), più svariati checkpoint lungo le strade con necessario controllo documenti (per tutti, han, non han e ovviamente anche me), 4 in totale dalla stazione all’albergo dove avrei alloggiato (distanza di soli 15 km).
La cosa che però mi ha in un certo senso stupito maggiormente è che tutte le forze speciali ai checkpoint, ovviamente super armate dalla testa ai piedi, erano prevalentemente minoranze etniche: da kazaki a hui, fino addirittura a uyghur.
Fortunatamente non ho mai avuto problemi ai vari checkpoint (diciamo che, essendo straniero e in particolare occidentale, alcuni potrebbero trattenerti per fare controlli più specifici, chiedendoti il motivo della visita, alloggio, fino ad arrivare addirittura ad ispezionare cellulare, pc o tablet vari per paura volessi trasmettere qualche filmato o file audio che fomentasse il terrorismo o il separatismo), fatta eccezione per una volta, nella città di Yining, quando la polizia ad un checkpoint mi ha obbligato a scendere dal pullmino-taxi sul quale ero e ha iniziato a interrogarmi, chiedendomi per quale motivo non avessi effettuato una registrazione di residenza temporanea alla stazione di polizia (ovviamente, essendo lì per vacanza non era necessario, e anche volendolo non avrei potuto farlo in quanto alloggiavo illegalmente in un albergo che in realtà non ammetteva stranieri), quanto sarei rimasto, per quale motivo ero lì, eccetera eccetera.
Mi aveva stupito molto il fatto che Yining, una città nello Xinjiang del nord (beijiang) e dunque con alta concentrazione di popolazione han, ci fosse così tanta polizia: fatta eccezione per Urumqi, in tutte le altre città del beijiang dove sono stato (Karamay, Dushanzi, Kuitun, Bortala, Orgos), praticamente la polizia era quasi inesistente: nessun checkpoint lungo le strade, nessun soldato schierato in assetto da guerra: erano tutte città assolutamente normali come può essere una Beijing o Tianjin qualsiasi. Il motivo per cui a Yining c’era un’altissima concentrazione di soldati e forze speciali risiede nel fatto che Yining è la città con la più alta concentrazione di popolazione uyghur nel beijiang, e molto instabile dal punto di vista sociale: poco dopo venni a sapere (ovviamente da fonti locali) che a Yining, 2 giorni prima del mio arrivo, era stata arrestata una banda di 35 presunti sospetti, pronti ad organizzare “eventi non piacevoli”.
Per il resto, non ho mai avuto problemi di alcun tipo, anzi ho avuto solamente esperienze piacevoli. Una delle cose che mi ha fatto più sentire a mio agio è dovuta al fatto che, quando camminavo da solo per strada, nessuno mi guardava o fissava come se fossi un alieno, contrariamente invece a quanto succede in qualsiasi altro posto della Cina al di fuori delle grandissime città.
Riconosco che forse i miei tratti somatici assomigliano un po’ a quelli uyghur, e anche il fatto che praticamente in quella zona non ci sono stranieri né turisti (al massimo, in altre aree, ci può essere qualche russo o qualche commerciante proveniente da qualche “-stan” dell’Asia centrale), fatto sta che i locali mi parlavano rigorosamente in uyghur, per poi rimanere estremamente sorpresi (diciamo più increduli) una volta scoperta la mia provenienza (soprattutto perché mi divertivo a mandarli in confusione rispondendo “mi dispiace, non sono uyghur” in lingua uyghur).
Al contrario dello Xinjiang del sud (nanjiang), dove la popolazione han è quasi assente, gli uyghur e kazaki del beijiang conoscono quasi tutti il cinese (ovviamente con un forte, e a tratti anche buffo, accento “arabo”), quindi non ho mai avuto alcun problema di comunicazione.
Di questo continuerò a parlare nel prossimo articolo, insieme a tante altre cose, tra cui cibo (come può mancare il cibo?), il carattere estremamente estroverso e socievole degli uyghur, alcune loro usanze, la mia visita in una moschea uyghur, e alcune curiosità tratte da scene quotidiane.
Bell’articolo, scritto bene
Ciao Irene, grazie per il commento. Spero che la prossima parte ti piaccia ancora di più! 🙂
mai capito perché la gente preferisca farsi 45h in uno sxomodissimo treno quando puoi andare da Beijing a Urumqi in qualche ora di aereo…
Perché si tratta di un’esperienza totalmente diversa che l’aereo, per quanto comodo sia, non potrà mai regalarti.
[…] Dopo qualche giorno di attesa, ecco la seconda parte dell’articolo riguardo la mia visita nello Xinjiang (qui la prima parte). […]