Il tema trattato nella puntata di 北京客 – 留学圈儿 a cui ho partecipato qualche settimana fa e andato in onda ieri su BTV (tv locale di Pechino) è abbastanza delicato: la depressione che affligge gli studenti all’estero. Durante la puntata vengono affrontati vari aspetti della depressione dei ragazzi che studiano all’estero, soprattutto dal punto di vista degli studenti cinesi, schiacciati dalla pressione dei propri genitori. Ma più che parlare della puntata, che potete guardare più in basso nella pagina, voglio cogliere l’occasione per esprimere dei pensieri sul problema in generale.

Studiare all’estero è ormai un’esperienza quasi indispensabile per essere competitivi nel mondo del lavoro ma, a prescindere da cosa cerchino le aziende, è un’esperienza importantissima soprattutto per una questione di crescita personale. Il viaggio per studio o per lavoro permette di scoprire nuovi paesi e nuove culture, analizzare i problemi da altri punti di vista, cosa che può aprire la mente e spogliarci di molti pregiudizi (se ci fosse più gente che studia all’estero, ci sarebbero meno voti per Salvini, garantito), dà la possibilità di imparare nuove lingue, responsabilizza, lascia ricordi indelebili, fa incontrare nuovi amici, spinge a dare il meglio di noi stessi e rende più forti.

Tutto questo però non arriva certo “gratis”. L’esperienza all’estero è una scuola di vita proprio perché, per quanto la sensazione di libertà che si prova sia bellissima, questa libertà ci pone davanti a tantissime difficoltà giornaliere, piccole e grandi, e non si può fare affidamento su nessuno per risolverle se non noi stessi.

Ora immaginate per esempio di arrivare in Cina da soli, senza sapere la lingua, con un visto turistico perché i documenti necessari a fare il visto studio non sono arrivati in tempo, andare in università con le valige pensando di avere una camera prenotata, sentirsi dire che la prenotazione non è andata a buon fine e che il sistema in internet non è aggiornato, dover pagare la retta universitaria in contanti e non trovare un ATM che ti faccia ritirare con la carta estera, dover trovare un alloggio ad un prezzo ragionevole, insomma girare da un ufficio all’altro con tutte le valige senza che nessuno capisca quello che dici, in una città di 20 milioni di abitanti dove non conosci né strade né persone e, dopo aver risolto il tutto, trovarsi a rimanere in un ostello per vari mesi perché l’orgoglio personale ti spinge a non chiedere aiuto a nessuno, nemmeno ai tuoi a casa.

Questo è stato l’inizio del mio viaggio studio in Cina. Probabilmente avrei potuto organizzarmi meglio ma, proprio per tutto quello che ho passato in quei mesi, ho imparato tanto e ho migliorato molti aspetti del mio carattere, a partire dal saper pianificare meglio il futuro, mantenere la calma in situazioni difficili, razionalizzare le risorse, affrontare la solitudine e persino l’insonnia (chi mi conosce lo sa… AMO dormire e ho un sonno molto profondo hehehehe).

A Pechino, come ho già scritto in precedenza, è difficile essere soli fisicamente, ma è molto facile sentirsi soli mentalmente. E’ una caratteristica forse comune a tutte le grandi città che sono capaci di farti sentire insignificante rispetto alla grande massa di gente che ti circonda in ogni momento e per questo tanta gente commette tantissime stupidaggini pur di essere notata. Se a questo si aggiunge il fatto di essere lontani migliaia di chilometri da tutti i propri familiari e amici e che la maggior parte delle persone conosciute sul posto hanno le tue stesse difficoltà e non hanno la minima intenzione di darti una mano perché impegnati a cercare di risolvere i propri problemi, non è certo facile andare avanti ed è invece semplicissimo deprimersi e cadere in abitudini autodistruttive.

Pechino non è per tutti. Ho conosciuto tante persone arrivate qui e andate via nel giro di poche settimane perché non si sono trovate bene, persone che si sono ammazzati di alcolici fino a che non sono state messe in prigione per qualche rissa o aiutati dalle ambasciate dei propri paesi a rientrare perché rimasti senza un soldo, gente che è arrivata a rubare o vendersi tutto pur di riuscire a comprare un biglietto aereo per tornare a casa. Ci sono anche casi di ragazzi che si sono suicidati o sono arrivati molto vicini all’estremo gesto, salvati da qualcuno o da un bagliore di lucidità che li ha portati a riconsiderare.

E’ proprio per questo che associazioni come l’AGIC sono molto importanti, perché ricreano un ambiente amichevole, un’atmosfera familiare, fatta di gente che ha avuto esperienze simili, che si scontra ogni giorno con le stesse difficoltà e che se ne può lamentare insieme e può darsi forza reciprocamente. Anche perché spesso le istituzioni non sono molto vicine, anzi nemmeno si accorgono di alcuni problemi che affliggono molti degli expat e un supporto del genere invece servirebbe come il pane.

Ma sto divagando… ritorniamo al programma TV, ultimo di una serie di apparizioni in TV di me e Jappo. Durante i 28 minuti di trasmissione vengono raccontate varie storie di depressione, vengono dati consigli su come prevenire il problema e opinioni di esperti sul fenomeno. Buona visione!

P.S. Un ringraziamento alla mia famiglia, sempre vicina in tutti i momenti felici e di difficoltà che hanno caratterizzato i miei anni a Pechino, è più che dovuto. Sono fortunato perché non tutti i ragazzi hanno familiari così di supporto (morale ed economico). Spesso invece le famiglie possono persino peggiorare le cose, come successo ad una delle ragazze che hanno raccontato la propria storia durante la puntata di 留学圈儿.